2019
Testo di Caterina Iaquinta

 

Nel 1973 Clemen Parrocchetti (1923-2016), dopo una fase di intensa elaborazione e produzione pittorica, redige un breve manifesto, Promemoria per un oggetto di cultura femminile, ricamando il testo in stampatello con doppio filo rosso su lastra d’alluminio. Nel manifesto si legge a chiare lettere: “Promemoria per un oggetto di cultura femminile composto di rocchetti e tessuti vari liberamente ricamati con fili e nastri cuciti su lastra incapsulata ín latoplex. Denuncia della condizione della donna tuttora sottoproletariato. Per richiamare l’attenzione sul problema razziale discriminatorio. Donna cuci taci donna punta spilli donna materasso per le botte in definitiva donna oggetto”.

Sono anni decisivi per la ricerca dell’artista che, giunta a una fase matura della sua vita e in sfida alla sua estrazione sociale, decide di abbracciare il femminismo e le sue tematiche, sia sul piano di un personale coinvolgimento politico, sia enunciandole nella sua pratica artistica.

Le opere che fanno seguito alla stesura del manifesto, delineano i temi e le circostanze del suo posizionamento dentro il pensiero e il movimento femminista: Speranza di parità (1973), Ultima alternativa, potere vedovile (1974), Mezzo Cielo (1974), Fuori dal ghetto, accerchiato (1974), Corpo (1974), Custodita e repressa (1975), Macchina delle frustrazioni (1975), Quattro righe amorose per una sposa (1975), La grande madre (1975), Speranza di liberazione dopo la resistenza (1977), Metamorfosi di una processione (1978), Appendiabiti del potere (1978), fra le più importanti. Si tratta di composizioni realizzate con materiali provenienti dal mondo del lavoro domestico femminile, del rammendo e del cucito: rocchetti, spolette, navette, fili, spilli, spilloni, ditali, passamaneria o scampoli di stoffa morbida e colorata, puntaspilli, utensili da cucina per bambole e siringhe vengono assemblati dall’artista in forma di occhi, bocche e vagine carnose ricamate su tessuto o in rilievo, realizzate in stoffa imbottita, talvolta trafitte da spilli o legate a rocchetti e spolette, il tutto cucito su lastra di alluminio. Piccoli, colorati ma taglienti “anti-trofei” della domesticità femminile sigillati dentro scatole in plexiglass, che raccontano l’esistenza della donna ingabbiata nell’ambiente casalingo: la navetta il femminile, la spoletta il maschile, la croce rossa e la siringa il lavoro di cura, la croce latina la restrittiva educazione cattolica, l’organo sessuale femminile la colpa del piacere e la bocca spalancata il grido di liberazione che supera i confini della clausura vissuta tra le mura di casa.

Nella riproposizione di questa anatomia, Clemen Parrocchetti riscrive così, con gli strumenti e i metodi del lavoro domestico, le questioni più dibattute in termini teorici e di lotta politica nel movimento femminista: il ruolo subalterno della donna e la repressione nella famiglia, l’aborto e il divorzio come prime istanze di emancipazione, la ribellione alla violenza domestica e la liberazione sessuale.

La prima serie degli oggetti di cultura femminile fu presentata presso la Galleria Il Mercante di Milano nel 1976 e un anno dopo, presso il Collegio Cairoli di Pavia, nella mostra Lavori femminili. Dal 1977 l’iconografia dell’artista si fa sempre più complessa e carica di oggetti, tanto da evadere la capsula in plexiglass per fuori-uscire e abitare ampie porzioni di juta grezza o tinta di nero. In questa fase e fino al 1978, Parrocchetti realizza una serie di arazzi che rappresentano “porte, tende, [...], grandi pertugi”, attraverso cui può passare lo sguardo, la voce e, questa, aprirsi finalmente in un grido. A dominare la tela è infatti quasi sempre una grande bocca rossa spalancata, simbolo della lotta per la libertà, della voce e della parola indisciplinata, urlata durante i cortei e contro il linguaggio ordinario, autoritario sia nella forma scritta che in quella parlata.

Il 1978 è un altro anno chiave nell’attività dell’artista. A gennaio partecipa al convegno “Donna Arte Società” presso il Centro Inter-nazionale di Brera e, successivamente, si lega al gruppo femminista Immagine di Varese (Silvia Cibaldi, Milli Gandini, Mariuccia Secol). Qualche mese dopo con il gruppo realizza per la XXXVIII Biennale di Venezia l’opera collettiva “Dalla creatività femminile come maternità-natura al controllo (controruolo) della natura”, che rimanda alla condizione primaria e primordiale della donna creatrice nel mondo naturale che può, però, dominare la natura per essere creatrice anche nella cultura.

Con il progetto collettivo presentato alla Biennale il lavoro dell’artista esce potenziato dal punto di vista della dimensione ambientale.

Dopo la mostra veneziana, alla fine del 1978, per la collettiva con Maria Grazia Sironi, Dalla gabbia all’aquilone, presso il Centro Attività Visive di Palazzo dei Diamanti di Ferrara, Clemen Parrocchetti presenta l’installazione Barriere. Il lavoro consiste in sei strutture composte da tre assi di legno ciascuna, montate per formare dei triangoli rovesciati, progettati dall’artista per ospitare al loro interno, oltre al proprio, interventi di varia natura e di autrici diverse. Un nuovo dispositivo dopo le sculture incapsulate e gli arazzi ma con un significato ancora diverso. Connotando le sue Barriere con il simbolo femminile, lo stesso che caratterizzava molte delle composizioni e delle tele in juta, l’artista supera l’idea del genere femminile come eternamente subalterno e sottomesso, oltre il quale non è concesso esprimersi.

Nell’idea di varcare fisicamente quella soglia imposta dal genere, una barriera appunto, dietro cui ogni donna rischia di costruire e soffocare il proprio universo quotidiano, la stessa Parrocchetti vedeva la possibilità di superare il pericolo di un femminismo che, se male inteso, “dà sempre fastidio, dà fastidio perfino a molte delle stesse donne.”

 

1987
Testo di Rossana Bossaglia

 

“Quando le battaglie femministe erano in fase ardente, le tecniche usate da Clemen, stoffe ricamate e trapuntate, cartoni percorsi da fili tesi, dunque l’impiego di aghi, spolette, rocchetti e così via, era l’ironica e fantasiosa risposta dell’artista — come tale al di sopra della mischia ma desiderosa di esserne coinvolta — ai problemi della condizione femminile e alla sua tradizionale servitù.

Il discorso a mano a mano si è allar-gato, le problematiche si sono fatte più complesse e delicate, il repertorio di temi si è arricchito, anche se è rimasto legato a nomi e immagini femminili, da Eva a Daphne; è riaffluita alla mano dell’artista la sua prima esperienza pittorica, di sfrenata esuberanza fantastica, ma è rimasto il gusto per la tecnica morbida e ispida dei lavori di cucito e di ricamo: a raccontare storie ambigue, fra le cui pieghe ancora si annidano amare denunce, ma che si aprono verso ansie sottili, malinconie esistenziali, smarrimenti; e mostrano i lacci multipli e imbriglianti di tutte le convenzioni, da qualunque parte vengano.

Clemen nelle opere di questi ultimi anni appare meno la ricamatrice agucchiante, la puntigliosa casalinga legata alla routine della sua condizione, quanto piuttosto la sarta estrosa, la modista di temperamento che combina toilettes da gran sera, al limite del costume per ballo in maschera: e così armeggia con garze, nastri, jais, paillettes, scintillanti sul fondo nero o baluginanti su fondi chiari: a rappresentare, nella deliberata futilità dei materiali, l’identificarsi della donna, e dell’individuo, in ruoli obbligati, senza libertà di scelte; e il disfarsi in essi della realtà della persona: occhi bocche mani ruotano su questi fondi artificiali non riuscendo a comporsi in figura unitaria. Tutto ciò, detto a mezze labbra, con dispettosa leggerezza; e può essere anche che il giuoco tenda a rovesciare, spiritosamente, l’enfatizzazione della moda, e della funzione dei suoi sacerdoti, nella cultura attuale.

Nella più recente produzione di Clemen, le tracce delle presenze umane, sia pure simboliche, si sono del tutto diradate; la tecnica da sartoria, o da messinscena, è utilizzata per portare lo sguardo su liberi colori della natura: vento, fulmini, stelle attraversano impetuosi la gracile trama di questi apparenti giochi. L’innocente artificio dell’armamentario di merceria è un mezzo pudico e garbato per dire emozioni e trasalimenti. Non credete mai alla spensieratezza degli artisti: anche quando il loro pensiero è fatto di tulle.”

 

1984
Testo di Rossana Bossaglia

 

Miti al femminile

“Siamo in tempi di riproposta della figura - intesa come rappresentazione naturalistica - e così nell’opera di Clemen Parrocchetti affiorano e si accampano, di tra i simboli che da anni ne punteggiano il percorso con estro e ironia, riconoscibili giovani volti, enigmatici nell’impenetrabile freschezza. La tecnica è sempre quella che Clemen ha incominciato a sperimentare nel momento acceso della rivendicazione femminista, quando ago e filo, strumenti del lavoro donnesco, erano l’arma di una polemica fatta oggetto concreto: il veicolo dell’immagine, appunto, divenuto immagine stessa. Ma, senza rinunciare ai suoi presupposti e alla sua specificità, la tecnica si è via via modificata per tener dietro a un discorso non irriggidito sulle sue posizioni e duttilmente disponibile a reinventarsi. Sicchè gli strumenti poveri del discorso stesso-umili spolette, acri spilli e puntaspilli - le intavolazioni severe - i grandi arazzi, specie quelli neri percorsi da poche indicazioni emblematiche - lasciano ora il posto a un scintillante gioco di sete, strass, lustrini, che rappresentano gli aspetti tradizionalmente frivoli della psicologia femminile, a proclamare una libertà di condizione senza moralismi. Il gioco è tanto più arguto e ricco di valenze quanto più questa serie di opere fa riferimento a personaggi mitologici, ed evoca il nome di Euridice, o inventa il corrispettivo femminile dei Dioscuri e si aggira dunque, senza rivisitazioni, nel giardino della citazione classica, oggi tanto amato. Non ci inganni l’apparente svagatezza della condotta fantastica: la dolce e aggressiva fanciulla dai capelli rossi sa trovare il suo posto in un dibattito dagli esiti ancora impregiudicati.”

 

1979
Testo di Rossana Bossaglia

 

“Sono molti anni che con interesse seguo il lavoro di Clemen Parrocchetti, in particolare a partire dalla mostra tenuta a Milano nel 1975 presso una galleria di Via Brera, dove si preannunciava quel tipo di ricerca, che poi nella presentazione a Pavia, si sarebbe chiamata “Lavori Femminili”, una mostra nella quale con un’ironia che parrebbe facile, nel senso che l’artista, utilizzando materiali femministi, materiali correntemente usati nella pratica del lavoro domestico, cucito, ricamo, aghi, spilli, fili, forbici, componeva delle piccole allegorie e forme che avessero un significato chiaramente rovesciato, cioè un significato ironico nei riguardi dei materiali adoperati. [...]

Erano oggetti polemici nei riguardi delle stesse attività maschili, molto arguti, molto spiritosi, in cui si evidenziavano a poco a poco, dei temi simbolici e cari alla Parrocchetti = la bocca o l’organo genitale femminile accostati o messi in contrappunto ad altre simbologie ricollegate tramite materiali diversi od anche con l’intervento de l’object trouvé. Quindi, oltre al ricamo ed all’attività femminile tradizionale, la Parrocchetti, ad un certo punto, inseriva nei suoi piccoli oggetti, pupazzetti, bambolotti, sempre con l’intenzione di composizioni chiaramente simboliche. [...]

Una tappa intermedia tra l’attività dei primi tempi e quella espressa poi nella mostra di Ferrara e nelle altre due qui, nella Galleria di Porta Ticinese, è stata la grande rassegna di Pavia, molto significativa, nella quale erano stati accostati oggetti di varia dimensione. Successivamente nella Galleria in cui ci troviamo, insieme ad altre artiste, la Parrocchetti ha usato il motivo del triangolo rovesciato da lei giocato sul tema delle barriere, come riferimento a tutte le barriere anche sentimentali, che sono profondamente legate alla vita della donna e della persona umana e che vanno Varcate, per arrivare alla liberazione. [...]

A questo punto la Parrocchetti ha pensato bene di utilizzare questa formula in una sorta di diario: una donna che cuce l’à jour il tema dell’orlo a giorno, il tema del lavoro che si ripete; come il ricamo, come lo sferruzzamento, come il cucire è di vario tipo, simbolo costante dell’attività femminile, essa gioca sul termine à jour per indicare una rimeditazione giornaliera giorno per giorno delle barriere che l’artista, la donna deve valicare.

Ha pensato questi simboli, che rappresentano vincolo e liberazione dal vincolo e ha tracciato questa specie di grande alfabeto con commenti grafici, sembrerebbe, cui corrisponde un testo volutamente elementare fatto a filastrocca, che è giocata su un italiano francese, perché dia appunto il senso del gioco, riconnesso con il tema dell’à jour.

L’orlo a giorno è il giorno del suo orlo, è l’orlo di ogni giorno: su questo tema, mi pare abbia dato una dimensione meno aneddotica al suo lavoro. [...]

Io ho sempre considerato specialmente incantevole di Clemen questo rimodulare temi fissi, che sono il triangolo rovesciato, la bocca con tutta la varietà dei simboli della bocca stessa, che ricorre frequentemente, l’occhio sempre con l’intenzione dell’occhio femminile, con ricorrenza di altre forme chiuse o raccolte. Ora l’artista è sempre più protesa a ridare queste forme in maniera più ampia, ingigantendole, facendole diventare grido e in questo caso il grido, è diciamo “Boh!” cioè è il grido del non sapere.

Quindi mentre prima c’era l’ironia un poco distaccata e arguta, adesso c’è un’immedesimazione più grave e la protesta — proposta di un grido, che non si sa verso quale direzione può sfociare. Negli arazzi i tempi affrontati sono diventati un formulario, veramente il suo alfabeto, che in una continuità narrativa, esprime la continuità dell’orlo, giorno per giorno. [...]”

 

1978
Testo di Clemen Parrocchetti

 

“La fantasia martellata da racconti e leggende: su una mensola, una mela tagliata e un seno trafitto, sono ricordi lontani e presenti. La stoffa è mimetizzata come il potere dalle mille maschere. Alla mensola appendo ogni frustrazione e il serpente catturato. Non voglio più che si pianga su quella rossa striscia di sangue da cui sorge il materasso che ci lega tutte alla ripetitività delle mille incombenze: ho aperto in una bocca rossa un grido di liberazione e di speranza.”

 

1977
Testo di Rossana Bossaglia

 

“[...] Clemen Parrocchetti, che pratica la pittura da molti anni, polemizza sulla condizione tradizionale della donna in modo ironico e compartecipe.

Non fa leva sulla propria realtà di donna-artista, ma si identifica con una lunga vicenda di minuti lavori di ricamo e di cucito, di fili e di spolette, di stoffe e aghi e spilli, per raccontare con lucida grazia e qualche punta di straziato affanno, il modo di vita legato, per un lungo arco di secoli, al paziente artigianale operare dentro le pareti domestiche, al lavoro che non è lavoro perché non rende come lavoro, non ha orario, non leggi: interrotto e ripreso secondo ritmi regolati soltanto dalla servitù sessuale e familiare.

Così da una parte l’artista compone simboli femministi di chiara riconoscibilità, dall’altra innerva di nuova fantasia la pratica donnesca del cucire, tagliare, sferruzzare, (e fare iniezioni, se del caso: l’angelo del focolare trasformato, quando è necessario, in angelo del capezzale). Ne escono oggetti di vitale comunicativa, dove si riconoscono in formule originali i portati della cultura dei “ready-made” piegati a una diretta significazione, ma con quel tanto di trasalimento surreale che ne garantisce la validità, fuori dell’immediata leggibilità polemica. E sottolinea la coincidenza del ruolo immaginativo e critico nell’operare artistico.”

 

1976
Testo di Anty Pansera

 

“Gli oggetti di “cultura femminile” che Clemen Parrocchetti presenta qui, in un insieme stringato e razionale, in una “storia” della giornata e della vita del personaggio “donna”, si collocano felicemente in tutto quell’operare per denunciare satiricamente la mitologia del mondo del consumo, che ha sempre caratterizzato il suo fare. [...]

La denuncia-analisi che, dalle “Quattro tappe obbligate per un’apoteosi” porta all’ “Ultima alternativa: potere vedovile” attraverso “Emancipata con il matrimonio” coerente per quel che riguarda il “contenuto” alla serie di disegni sul tema della “cintura di castità” è portata avanti, curiosamente, con materiali, che paiono pescati, quasi a caso, in un cestino da lavoro, in quel cestino da lavoro simbolo del “potere” della donna della società patriarcale. Con una tecnica da sarta-fabbro, con una strumentazione povera, con una scelta di codici linguistici a tutti recepibili, a tutti e soprattutto a tutte le donne, a chi cioè l’artista vuol rivolgersi in prima persona, per sollecitare una autentica partecipazione alla realtà attuale, Clemen Parrocchetti continua così a testimoniare la sua volontà ottimistica di incidere nel reale. [...].”

 

1972
Testo di Marcello Venturoli

 

“Benchè siano molti anni ( la sua prima mostra personale è del 1958) che Clemen Parrocchetti dipinge con sicuro piglio professionale ed abbia già una “carriera” precisa, meritando giudizi non d’occasione (da quelli di Giorgio Kaisserlian, che, si può dire l’abbia tenuta a battesimo, a quelli di Raffaele De Grada, di Mario Radice e, ultimo in ordine di tempo, esplicito nei consensi, Mario De Micheli) mi piace osservare che l’esplosione della sua arte è avvenuta intorno al 1969 e che in questi tre anni la pittrice è riuscita a svolgere un discorso assai più articolato e conseguente che in tutto l’arco di tempo precedente a quella data. [...]

Clemen è da tempo già un’altra artista e ben si può dire che il suo “prima”, di gravi e lente modulazioni astratte, costituisca la sua preistoria, direi quasi quella mortificazione, del sentimento e della fantasia (binomio per lei indissolubile) in virtù della quale (o malgrado la quale) è scattata la Clemen di adesso, appunto, dei “giardini fioriti”, sempre che a queste parole sia dato un significato più ampio, come del resto comporta la sua immagine polivalente.

Opportuno è invece tracciare un ritratto dell’arte di Clemen, nella sua globalità, come di un fiore si possa dire prima di tutto a quale specie appartenga e quale sia il colore, o di una voce il timbro, di una bocca la risata: chi guarda un dipinto dell’artista milanese non pensa certo allo smog e forse neppure ad una regione italiana, benchè sia indubitata la sua “solarità”; pensa a lidi e isole della fantasia, che rispecchiano prepotentemente un paesaggio interiore; non riposato ed elegiaco tuttavia, ma crepitante di particolari, impennato in un trofeo o groviglio di sensazioni, sontuoso eppure abbastanza infantile — una fiaba ottenuta coi simboli di una realtà cosmico domenicale, una sessuologia scaricata dalle crudeltà surrealiste e come in ghingheri, in trapunti, in frange, quasi che l’artista si faccia bella soltanto attraverso i quadri, la sua femminilità è lì — in una premeditazione sempre inconsapevole, in una premitura per iperboli di analisi, appunto, che metà soffoca l’immagine e metà aggredisce chi la guarda. […]

Questa pittura, come ha scritto Dino Buzzati è “nevrotica” e insieme “ottimista” e, dal punto di vista psicologico, la definizione è esatta; ma non sono più d’accordo con lo scrittore-pittore-critico quando afferma che nell’arte di questa pazzerella a lieto fine sia una mescolanza di “disegni dei bambini, disegni dei matti, l’arte pop, il sadismo, il sesso inteso come giocattolo, le sagre carnevalesche valligiane, con tornei di grotteschi e diabolici mascheroni”. Vorrei dissentire nel senso che la follia di Clemen ha un metodo e questo metodo non si presenta come una specie di container per un cocktail di disparati ingredienti: questa festa si muta in rissa, questo intrigo di segni a coprire il vuoto (non di un’anima, ma di uno spazio entro il quale l’irrequietezza dell’artista vuole essere collocata, carezzata, giustificata, distratta e, perché no, sublimata), scoppia in proteste di furibonde dolcezze, fughe-aggressioni, sospiri urlati, non c’è che dire. [...]

È un’avventura il contatto; ed è proprio una donna che lo determina: puntigliosa, felicemente scriteriata, eppure padrona dei suoi mezzi, niente affatto sprovveduta di conoscenze negli “ismi”, da Mirò a Kandinsky, per esempio, senza contare le riproposte del Liberty; l’artista sa la differenza fra immagine di decorazione e immagine di pittura, sa l’incidenza ossessiva del particolare nell’economia della tela, sa raccontare, senza per altro indulgere troppo alla letteratura, rispetta l’immagine pittorica come tale, le piace il quadro finito, anche troppo. [...].”

 

1969
Testo di Gino Traversi

 

“[...] È dal 1963, infatti, che l’artista, impegnata in una ricerca che ha profondamente rivoluzionato il suo precedente modo di figurare, non espone. La presente rassegna comprende, dunque, una selezione interamente inedita di dipinti e disegni relativi agli esiti più recenti, certamente i più significanti d’una visione nuova, maturata dall’interno senza fretta e senza mire arrivistiche.

Essa si costituisce denuncia aperta di taluni non secondari aspetti della società contemporanea: un atto coraggioso e deciso realizzato senza acrimonia, con sentimento spontaneo e misurato.

L’apparenza festosa d’un cromatismo vivace e gradevole sembrerebbe contrastare con la morfologia risentita e talvolta pungente; ma è proprio da questa discordanza tra mezzo e contenuto che il linguaggio della Parrocchetti trae il suo carattere più esaltante. [...]

Fedele al clima delle schiere di punta dell’arte attuale — protese verso la ricostruzione dei valori — la Parrocchetti s’inserisce nel dibattito con slancio entusiasmante, agilità e prontezza operativa, coerenza appassionata con le aperture ideali del nostro tempo.”

 


Testo di Rossana Bossaglia

 

“[...] Cucendo con ago e filo le due artiste hanno [...] ben capito che la battaglia può farsi portavoce di quante altre battaglie respingano le maglie ingabbianti di strutture fisse; hanno accettato con gioia un’operatività di tipo artigianale perché nel fare ciascuno trovi il proprio modo di essere (e nel lavoro della Sironi forte è l’impegno alla realizzazione dell’oggetto rifinito, da gran tovagliato; mentre la Parrocchetti mantiene una sua personale più ironica concettualizzazione). Ne vien fuori una sorta di teatro, di racconto a episodi, dalla gabbia all’aquilone. Dove poi è lasciato margine alle problematiche personali, nella difficile qualificazione della problematica generale. L’invenzione dell’artista ha senso se fa sempre almeno un passo in più rispetto al pensiero che le sta dietro.”

 


Testo di Marcello Venturoli

 

“[...] Dei lavori ultimi in cui Clemen ha dato senza dubbio il meglio di sè creando nel quadro dei valori post-pop uno spazio suo proprio, definirei “delle pantomime” quello dove oggetti muliebri sono chiamati alla rivolta, armandosi di loro stessi, come nel drammatico eppur sorridente “emancipato col matrimonio” in cui si può dire che Clemen riducendo tutto al comun denominatore scarichi di veleno la sua denuncia.

Lo stesso motivo è in “mezzo cielo” dove si annunciano due fasi l’una “allegra” di ricami, piccoli graffi, grida e risa soffocate, l’altra fredda di aggressivi grigi, neri rocchetti, simbolo del potere maschista. Sono aiuole di pensieri pittorici in pantomime di merci, bocche nere o rosse, contornate di spilli dalle capocchie colorate, una sorta di riviviscenza dopo il lutto, filigrana d’oro, rocchetti neri...

Certo, chi si ponesse di fronte a questi emblemi o scudi di pensieri con uno spirito fiscale inventariando pezzo per pezzo, compirebbe forse a ritroso il cammino fatto dall’artista per raggiungere l’unità dell’opera, col risultato di trovarsi in mano delle cose inerti, ma evidentemente chi legge Clemen già conosce Schwitters, Man Ray, Duchamp, Rauschenberg e tanti altri. [...].”

 


Testo di Clemen Parrocchetti

 

“Il gruppo di lavori che in questi ultimi due anni ho portato a termine e presento ora alla Galleria del Mercante, potrebbe intitolarsi “ambiguità della rivoluzione proletaria”. Sono infatti convinta che non sia possibile una completa rivoluzione sociale, se prima le donne non abbiano raggiunto una vera coscienza del proprio ruolo. Com’è possibile che i popoli migliorino le condizioni se il sottoproletariato-donne è tuttora vittima della propria subalternità? [...]

Tabula rasa, quindi, e ricominciare da capo! Non è giusto insistere a tenere mezzo cielo al sole e l’altra metà in piena notte, con ben poche stelle! Pensando a questo secondo mezzo cielo, così derelitto, ingannato e sfruttato, ho iniziato questa serie di lavori, una ventina, per ora. Li chiamo oggetti di cultura femmin-ile, sono costruiti con materiali poveri e soffici, con stoffe talora colorate vivacemente, unite a nastri, a fili spesso lasciati volutamente sollevati per esprimere il fermento, la ribellione, qualcosa, che vuole uscire ed espandere, pur essendo ancora prigioniero. Sono forme in rilievo, quasi tutte simboliche vagine femminili, espressa-mente cucite su lastra metallica a denunciare la fatica quotidiana cui sono soggette, quasi tutte punzecchiate da spilli ad indicare le torture che non danno requie. Spesso sono fissate e legate a gomitoli di filo, simboli sessuali maschili, che rappresentano l’oppressione e l’ostacolo alla libertà. Durante il procedere del mio lavoro mi sono confrontata con artisti e critici, ma il femminismo, perché male inteso, dà sempre fastidio, dà fastidio perfino a molte delle stesse donne.”

 


Testo di Mario Radice

 

“[...] Oggi è di moda attribuire ad ogni composizione artistica un contenuto di carattere sociale. Credo che si possa affermare senza il timore di essere smentiti che le opere della pittrice Parrocchetti sono tutt’altro che estranee alle vicende del mondo attuale; non tuttavia per i temi svolti in esse, ma per il modo con il quale è attuato lo svolgi-mento. In altre parole ogni artista “vero” riflette in-consapevolmente ed ovviamente il mondo in cui vive. [...]

Le opere della pittrice Clemen non mi sembrano classificabili con i soliti schemi: non sono figurative che in minima parte e non sono affatto astratte e nemmeno di carattere surrealistico; non si possono includere nella “neofigurazione” che deriva (tecnicamente) in gran parte dall’arte informale. E’ un merito dell’artista il suo distacco apparente dalle correnti principali di oggi? Può darsi. In ogni caso la singolarità di queste pitture contribuisce a mettere in luce la personalità dell’autrice. Contrariamente all’opinione comune attribuisco tuttavia alla cosiddetta personalità scarsa importanza. [...]

Ogni tela di Clemen Parrocchetti è una favola sognata e dipinta con passione sincera ed evidente in maniera lampante. Le tele più importanti sono ovviamente quelle in cui l’armonia dei colori prevale su ogni altro elemento della composizione. La struttura formale ingenua, quasi infantile, permette che prenda il sopravvento su tutto il resto l’incanto (quando c’è) dei colori armoniosi, e quando c’è questo incanto l’opera vive di vita propria, il tema non infastidisce più e la favola appare nella sua pienezza. I dipinti sono eseguiti con nitide compiture ed ogni campo ed ogni segno è terso e privo di incertezze formali [...].”

 


Testo di Dino Buzzati (Corriere della Sera, 12 dicembre 1969)

 

“Dio solo sa da quale reparto dell’inconscio la milanese Clemen Parrocchetti ha tratto queste sue strane, coloratissime fantasie, in cui sembrano mescolarsi e confondersi una quantità di memorie. I disegni dei bambini, i disegni dei matti, l’arte pop, il sadismo, il sesso inteso come giocattolo, le sagre carnevalesche valligiane con tornei di grotteschi e diabolici mascheroni. Un mondo senza dubbio moderno e originale. Nel catalogo Gino Traversi vi scorge una specie di esagitata satira di alcuni aspetti della società moderna. A me, i quadri della Parrocchetti risultano sì, alquanto nevrotici, ma complessivamente allegri e ottimisti.”